
Per quarant’anni, la gestione del lievito madre si è basata su ciò che era visibile e misurabile: un miliardo di batteri lattici, cento milioni di lieviti, un rapporto costante di 100 a 1. Ma sotto questa superficie apparente si nascondeva un ecosistema microbico molto più complesso, invisibile ai metodi tradizionali. Oggi, grazie alle tecniche di sequenziamento genetico, possiamo finalmente mappare l’intera comunità microbica e comprenderne le dinamiche funzionali. E scopriamo che anche i microrganismi “minori” giocano un ruolo chiave nella qualità del prodotto finale.
A presentare questo cambio di paradigma è Marco Gobbetti, preside della Facoltà di Scienze Agrarie, Ambientali e Alimentari dell’Università di Bolzano, intervenuto a BCI Experience 2025, evento organizzato da Puratos Italia. Il suo intervento, intitolato «La gestione del lievito madre: il successo del gioco di squadra», ha messo in luce come la fermentazione naturale stia entrando in una nuova era, guidata dalla microbiologia predittiva e dalla logica dei sistemi complessi.
«Nel lievito madre, come nella pallavolo italiana, non contano solo i dominanti: è l’intera squadra microbica a fare la differenza», spiega Gobbetti.
Il limite dei metodi tradizionali – come la conta in piastra – è evidente: non permettono di rilevare più di 300 colonie, lasciando fuori gran parte della biodiversità microbica. L’analisi genetica, invece, consente di estrarre il DNA direttamente dal lievito madre e identificare anche le specie subdominanti e satelliti, presenti in quantità ridotte ma costanti. La loro funzione? Ancora in fase di studio, ma potenzialmente determinante per la stabilità, la resilienza e il profilo sensoriale del prodotto.
Il progetto Fermentoma, sviluppato con Puratos negli ultimi quattro anni, ha validato questo approccio. Il microbiologo diventa così un “coach” che costruisce comunità microbiche su misura, ottimizzando la ridondanza funzionale: se più specie svolgono la stessa funzione metabolica, la perdita di una non compromette la qualità complessiva.
«Abbiamo osservato che, dopo 30 giorni di rinfreschi, il lievito madre tradizionale perdeva il 50% delle specie. Le comunità ricostruite secondo il nuovo modello, invece, mantenevano intatta la biodiversità e miglioravano la qualità sensoriale, a parità di pH», sottolinea Gobbetti.
Le venti comunità sintetiche testate successivamente hanno confermato la stabilità numerica e sensoriale nel tempo. Il prossimo step, con Fermentoma 3, sarà testarne la resilienza a stress ambientali: variazioni di temperatura, pH, farine.
Come si traduce tutto questo nella gestione industriale? Ogni azienda, spiega Gobbetti, ha un fermentoma unico, determinato da ingredienti, processi e frequenza di rinfresco. Per questo è strategico adottare un modello di monitoraggio periodico (2–3 volte l’anno) della composizione microbica, distinguendo tra specie dominanti, subdominanti e satelliti. Un approccio che consente di anticipare derive qualitative, ottimizzare la produzione e differenziare il prodotto sul mercato.
L’Università di Bolzano propone un modello di partnership avanzata: non un semplice trasferimento tecnologico, ma una collaborazione continuativa. Al Centro Internazionale sulle Fermentazioni, 13 aziende partner dispongono di un laboratorio e un ricercatore dedicato per progetti triennali. Un modello che integra ricerca, sviluppo e applicazione industriale in tempo reale.
«Il lievito madre del futuro non si gestisce più a occhio. Serve una squadra anche fuori dal laboratorio», conclude Gobbetti.





