
Negli ultimi mesi l’entusiasmo intorno all’intelligenza artificiale generativa (GenAI) ha raggiunto livelli senza precedenti. Ma dietro la retorica dell’innovazione si nasconde una domanda cruciale: GenAI è davvero un bene per il mondo?
Un recente studio della Stanford University ha rivelato che i dipendenti statunitensi spendono in media 1 ora e 56 minuti per attività a ripulire contenuti generati dall’AI dai propri colleghi. Non si tratta di un dettaglio: email confuse, report gonfiati e presentazioni scintillanti ma vuote stanno creando un nuovo fenomeno, già battezzato “workslop”. Il workslop appare come lavoro ben fatto, ma in realtà è rumore che rallenta i processi, genera frustrazione e riduce l’efficienza complessiva dei team.
Un’analisi del Financial Times su centinaia di report delle aziende Fortune 500 mostra un quadro simile: tanto entusiasmo e parole d’ordine sull’AI, ma poca sostanza in termini di risultati concreti. Le imprese faticano ancora a capire come integrare GenAI in modo realmente produttivo, andando oltre la sperimentazione superficiale.
Sul piano sociale, le implicazioni sono ancora più delicate. I deepfake hanno già interferito con processi democratici in paesi come Costa d'Avorio, Irlanda e Stati Uniti, diffondendo video manipolati di candidati che annunciavano falsi ritiri dalle elezioni. Questi contenuti, realistici e virali, minano la fiducia pubblica e rendono sempre più sottile la linea tra verità e manipolazione.
La dimensione culturale non è immune da queste dinamiche. Alcuni influencer, tra cui Eugenia Cooney e Hasan Piker, sono stati bersaglio di deepfake a contenuto sessualizzato o diffamatorio, diffusi senza alcun consenso e con potenziali danni reputazionali significativi. Parallelamente, su piattaforme come TikTok si sono diffusi trend basati su immagini generate dall’AI che simulavano episodi di marginalità sociale e presunte effrazioni domestiche. Questi contenuti, pur concepiti come “prank”, hanno alimentato timori ingiustificati, generato spreco di risorse da parte delle forze dell’ordine e sollevato un ampio dibattito etico. In alcuni casi, le autorità hanno persino avviato procedimenti legali a fronte delle conseguenze concrete di tali fenomeni.
GenAI non è intrinsecamente “buono” o “cattivo”: è uno specchio che amplifica tanto i nostri punti di forza quanto le nostre fragilità. La vera sfida non sarà tecnologica, ma etica, culturale e profondamente umana. La domanda da porsi non è se GenAI sia positivo per il mondo, ma se noi siamo pronti a usarlo con responsabilità.
In sintesi: GenAI può essere un acceleratore straordinario, ma senza governance, etica e consapevolezza rischia di trasformarsi in un moltiplicatore di caos.





