Servitization nel food: il valore oltre il prodotto

Servitization nel food: il valore oltre il prodotto

Nel food il prodotto resta la base di partenza. La sua qualità, il gusto, la sicurezza alimentare e la disponibilità determinano ancora gran parte della competizione. Ciò che cambia, in modo progressivo e strutturale, è dove si crea davvero il valore: non solo nell’ingrediente o nella ricetta, ma nell’insieme di servizi che accompagnano il prodotto lungo l’esperienza d’uso.

Nel gergo della pianificazione strategica questo passaggio è definito “servitization”: la capacità delle aziende di spostare il baricentro da una logica di offerta puramente fisica alla costruzione di livelli progressivi di servizio, mantenendo centrale l’eccellenza del prodotto ma ampliando la proposta attraverso un supporto continuo al cliente.¹

Il tema non è nuovo. Piuttosto, sta maturando e si sta consolidando come scelta quasi inevitabile per rimanere competitivi. L’industria alimentare è infatti un settore maturo, ad altissima concorrenza e caratterizzato da un potere negoziale sempre più forte della distribuzione. In questo scenario, basare la propria differenziazione esclusivamente sul prodotto diventa difficile, mentre la pressione sui prezzi spinge verso una pericolosa commoditizzazione. A conferma di questa fragilità strutturale, Bain & Company rileva che nell’ultimo decennio il rendimento totale per gli azionisti delle aziende del food confezionato è passato da circa il 15% al 2,9%, uno dei cali più marcati tra i settori consumer.²

Servitization nel food: il valore oltre il prodotto

Non si tratta solo di proteggere margini in calo: la questione è come recuperare rilevanza e valore percepito. La servitization si colloca esattamente qui.

La domanda, sia nel B2B sia nel B2C, evolve in una direzione chiara. Gli operatori professionali cercano partner capaci di offrire non solo prodotti, ma soluzioni: assistenza tecnica, consulenza, formazione, insight applicativi che facilitano le lavorazioni e riducono inefficienze. È una domanda di competenze che leghi il prodotto al beneficio che può portare.

Il consumatore finale, al contrario, legge il valore in termini di semplicità, fiducia e oinvolgimento: desidera esperienze d’uso facilitate, suggerimenti per l’utilizzo, esperienze di marca che diano senso a ciò che porta in tavola. In entrambi i casi, non si valuta più solo il prodotto, ma il beneficio che porta con sè: risparmiare tempo, evitare sprechi, alimentare un momento di piacere o un’abitudine più sana, e così via.³

Gli studi accademici mostrano come la servitization nel food si esprima attraverso tre dimensioni strettamente collegate:

• la dimensione funzionale interviene quando il servizio semplifica la vita di chi usa il prodotto, riducendo gli attriti di preparazione o distribuzione;

• la dimensione informativa risponde al bisogno crescente di trasparenza, facilitando scelte consapevoli lungo tutto il percorso d’acquisto;

• la dimensione esperienziale crea relazione, quando un prodotto diventa protagonista di un rito sociale o personale, stabilendo connessioni più profonde con i brand.¹

È una logica diversa da quella del “valore incorporato nel prodotto”: qui il valore si espande, raggiungendo ambiti prima non presidiati dalle aziende.

Ma fino a che punto un’impresa deve pensare di spingere la propria trasformazione?

Più che di un cambio radicale di identità, la questione va posta in una logica evolutiva progressiva, nella quale ogni salto implica uno strato aggiuntivo di servizio, e pertanto di valore.

Se l’acquisto di alimenti al supermercato è tradizionalmente un’esperienza di “bene fisico”, modelli come il food delivery, i meal kit o gli abbonamenti alimentari mostrano come il valore si stia spostando verso elementi immateriali: comodità, personalizzazione, accesso facilitato, benefici di cura. Al limite superiore del continuum emergono servizi in cui il prodotto è quasi un mezzo: consulenza nutrizionale, percorsi alimentari personalizzati, esperienze culinarie costruite attorno all’utente. In questi modelli il cibo non è solo ciò che si acquista, ma ciò che “fa succedere” nella vita delle persone. Per le imprese del food, questo spostamento implica un cambio di prospettiva radicale: la concorrenza non si gioca più su prezzo e caratteristiche fisiche, ma sulla capacità di progettare un’esperienza che generi risultato, gratificazione e fidelizzazione.

La servitization, pertanto, non va pensata come una mera intenzione di marketing, ma la scelta strategica di organizzarsi per offrire un vero e proprio service package, capace di rispondere a bisogni complessi e supportato da capacità tecniche e organizzative adeguate. Lo confermano le ricerche empiriche nel settore: quando i servizi sono costruiti attorno al cliente e integrati a monte e a valle della filiera, l’impatto si traduce in performance migliori nel medio-lungo periodo.¹⁴

Questo tipo di percorso va interpretato quindi come un vero e proprio investimento: progettare servizi, costruire competenze, adattare processi e risorse interne comporta costi organizzativi e operativi concreti e potenzialmente elevati.

Pertanto la bontà di questa scelta va valutata in una logica di costo-opportunità misurando attentamente se il differenziale di prezzo ottenibile supera il differenziale di costo sostenuto: se l’offerta di servizio permette di alzare il valore riconosciuto dal cliente più di quanto aumentino i costi per erogarlo, l’impresa si ritrova non solo con un surplus di valore, ma anche con un vantaggio competitivo più solido, perché smette di competere sul prezzo grazie alla presenza di elementi difficilmente imitabili. Quando invece il costo aggiuntivo dell’innovazione di servizio è superiore al margine incrementale ottenuto, la redditività dell’iniziativa può essere meno evidente; ma anche in questo caso, se il servizio ha creato una differenziazione percepita e una relazione più forte con il cliente, il beneficio può essere ottenuto da un incremento dei volumi, una maggiore frequenza d’acquisto, una crescente fidelizzazione. In definitiva, una servitization efficace può vincere in due modi diversi, o migliorando i margini unitari o aumentando la stabilità e la profondità della relazione commerciale. In entrambi i casi, l’impresa si sottrae alla pura logica del “prezzo contro prezzo” che caratterizza i mercati maturi.

Alcune aziende del food & beverage, in Italia e non solo, hanno dimostrato che investire in servizio permette di uscire dalla competizione di prezzo e costruire posizionamenti distintivi. Ciò può avvenire attraverso l’ascolto costante del mercato; attraverso l’innovazione orientata alla facilità d’uso, che aiuta a sviluppare nuove occasioni di consumo; attraverso miglioramenti nei processi che rendono le aziende più veloci nel rispondere alla domanda; o attraverso relazioni più solide con la filiera agricola, che garantiscono qualità e coerenza. In altre parole: la servitization si attua quando si passa dal pensare “il prodotto deve piacere” al pensare “il prodotto deve far arrivare a un risultato migliore”.

Un esempio semplice quanto efficace proviene dal segmento della pinsa, che di recente si è ritagliato uno spazio interessante sugli scaffali del pane e dove alcuni prodotti hanno aggiunto un livello di servizio ulteriore grazie a un packaging evoluto, dotato di un vassoio da forno, che semplifica la preparazione in casa.

Un secondo esempio può essere la creazione di bundle al fine di proporre al consumatore un prodotto composto da diversi elementi, che consente di ottenere un’esperienza di consumo migliorata in termini di freschezza e gusto, aumentando il valore percepito (nonostante si lasci al consumatore una fase della preparazione).

In altri casi, il servizio può anche essere legato alle modalità di acquisto, come nel caso dei prodotti che possono essere acquistati attraverso servizi di e-commerce e consegna a domicilio, con formule in abbonamento, permettendo al cliente anche di accedere a prodotti difficilmente reperibili online (è il caso di Wildgrain, shop di prodotti da forno artigianali in abbonamento).

Il cambiamento che la servitization può introdurre non è solo operativo ma strategico. Riducendo l’abbandono dei clienti, la servitization aumenta la stabilità dei ricavi e crea una fedeltà meno vulnerabile alla concorrenza. Sposta il confronto con i competitor su terreni difficili da imitare, come la relazione e la conoscenza dei bisogni profondi del mercato. Consente di proporre servizi a valore aggiunto che migliorano la marginalità. E apre l’accesso a dati preziosi sull’utilizzo del prodotto, indispensabili per alimentare cicli di innovazione più efficienti. In un contesto dove la profittabilità è sotto pressione, tutto questo non è un valore accessorio: è vantaggio competitivo.

Molti manager del settore si chiedono se serva cambiare il proprio modello di business. La risposta è più sfumata: non si tratta di lasciare alle spalle la forza del prodotto, ma di estenderla. L’obiettivo della servitization non è sovrapporre servizi superflui, ma completare il valore della proposta così come viene percepito dal cliente. È un tragitto che si costruisce un passo alla volta, facendo crescere le competenze interne e la capacità di ascolto. Ma la direzione è ormai tracciata.

Nel food, chi vuole guidare una categoria deve fare un passo in più: dal vendere a far ottenere un beneficio. È qui che si misura oggi il vantaggio competitivo. Perché il valore, sempre più spesso, non è soltanto in ciò che c’è nella confezione, ma in tutto ciò che succede prima e dopo averla aperta.

The Ros



Bibliografia

1. Pirotti, G. B. (2017). Servitization in the Food & Beverage Industry (presentazione accademica SDA Bocconi).

2. Bain & Company (2024). Can Food Companies Unwrap a New Strategy? CEO Sustainability Guide 2025.

3. Vandermerwe, S., & Rada, J. (1988). Servitization of Business: Adding Value by Adding Services. European Management Journal, 6(4), 314–324.

4. Gaiardelli, P., Resta, B., Martinez, V., Pinto, R., & Albores, P. (2019). A classification model for servitization in manufacturing and consumer industries. Journal of Cleaner Production, 232, 193–204.

5. Rahul Patel, H. (2022). Is food a product or a service?


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